Le molte fotografie di Kessels.


Fino al prossimo 30 luglio si può visitare da Camera a Torino  la retrospettiva di Erik Kessels curata da Francesco Zanot, ed è una visita davvero altamente consigliabile.

Forse questa, insieme alla grande mostra d'apertura di Boris Mikhailov del 2015, è la migliore esposizione allestita negli spazi di Camera. La figura di Kessels emerge nella pienezza della sua complessità. Personaggio davvero eccentrico e sui generis al quale le tradizionali definizioni vanno strette: artista, curatore, editore, art director, collezionista compulsivo e aggiungete pure quella che volete, in parte ci sarà senz'altro.


Avendo avuto anche la fortuna di vederlo in azione ieri sera nella presentazione di uno slideshow che riassumeva il suo lavoro, c'è da aggiungere il fattore, non secondario a mio parere, della sua enorme carica empatica. Come un consumato uomo di spettacolo sa intrattenere il pubblico portandolo dalla risata senza freni al momento di riflessione con rara abilità istrionica.

Certamente il nucleo fondamentale del suo lavoro è tutto contenuto nell'incontro con l'uso sociale del fotografico e della relativa iconografia seriale che ne deriva. In questo senso, la sede migliore per i suoi progetti è nelle edizioni che cura con grande perizia professionale.

Diversamente da altre operazioni analoghe, sugli archivi o collezioni private rese "artistiche" dall'intervento taumaturgico di un qualche artista patentato e sostenuto da tesi e scritti di soloni vari, qui siamo di fronte ad un uomo concreto che mette le mani nel letame per tirarne fuori dei fiori altrimenti in esso sommersi e perduti.


L'operazione in apparenza sembrerebbe critica, persino di condanna dell'invasione iconica da cui saremmo travolti ogni giorno (concetto talmente banale e ripetitivo da risalire già ai primi tempi della fotografia). Invece penso che il suo approccio si rivolga più alla tragedia senza senso apparente del vivere che trova una metafora straordinaria nel rapporto con l'immagine tecnica, in specie quando viene messa in atto senza consapevolezza e alcuna volontà autoriale.

Come la vita, le fotografie si succedono in flussi continui, spesso ingovernabili, che ad un certo punto si interrompono senza altro motivo che la fine del fotografante o delle condizioni in cui si manifestavano. Il gesto d'amore di Kessels sta nel tentare un recupero, una sorta di celebrazione postuma, o anche in vita se possibile, di quelle ossessioni, quelle compulsioni che al di là dei risultati iconografici sono sempre e comunque segnali di vitalità e di presenza.


Sintomatiche di questo atteggiamento sono le immagini più private, come quelle dedicate alla sorella scomparsa in giovane età o al padre di recente colpito da ictus. Così accade anche nel caso della tiratrice al bersaglio, che ogni anno dagli anni Trenta si fa un selfie con un colpo di fucile ai baracconi delle giostre o in quello della signora spagnola che tra la fine degli anni Cinquanta e inizio Sessanta viene ritratta in posa dal marito in luoghi sempre diversi con una certa competenza fotografica. Serie quest'ultima scoperta da Kessels in un mercatino e con l'identificazione della donna avvenuta con una successiva campagna di ricerca. Testimonianza tra l'altro del fatto che il marito molto probabilmente non c'è più e che la moglie aveva abbandonato al loro destino quelle fotografie.


In altri aspetti, l'amore di Kessels travalica in passione sfrenata e lì lo perdo per strada. Certamente l'esuberanza può portare ad eccessi, ma penso che nel passaggio dalla fotografia chimica (su carta) ai flussi virtuali della rete in Kessels si manifesti un errore concettuale non da poco. Trovare per caso delle stampe fotografiche o degli album di fotografie senza riferimenti è sempre stato possibile. Siamo qui di fronte davvero a fotografie anonime. Invece prendere un giorno intero di fotografie pubblicate su Flickr, stamparle in formato 10x15 e farci delle montagne che invadono gli spazi espositivi è un gesto predatorio che costruisce l'anonimato obliterando volontariamente il nome dell'autore. Così anche per le fotografie di piedi, sempre prese dalla rete. Dove Kessels rimane pericolosamente novecentesco è nell'incomprensione che la rete non è un luogo anonimo a libera disposizione di chiunque per rubare, perché di rubare si tratta, fotografie da usare come meglio si crede. Questa è forse una deformazione professionale da art director di agenzia grafica e/o pubblicitaria. Sulla rete ogni fotografia pubblicata ha un nome e cognome del pubblicante e non è perché è possibile scaricarle con pochi click che diventano anonime e libere da diritti.

Su questo punto il lavoro di Kessels lo trovo pericoloso e molto criticabile perché adombra un comportamento che se imitato sancirebbe la legge che basta essere un "Kessels" per potersi permettere quello che ad un umano non altrettanto potente sarebbe impedito dalle leggi e dalle buone consuetudini di rispetto per l'altro. Dietro ogni fotografia, anche la più umile e sbagliata, c'è sempre un essere umano che va tutelato e rispettato. Dimenticarlo apre alla barbarie mercificante dell'usare le robe altrui per farsi soldi in proprio. Ah, sì, scusate, in cambio si può sempre promettere la visibilità. Quando sarà accettata da un panettiere per un chilo di pane, mi parrà davvero equa, ma prima no, mai.


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