Dietro la prima linea.


Purtroppo solo fino al 13 novembre prossimo è visitabile nella corte medievale di Palazzo Madama a Torino la mostra In prima linea. Donne fotoreporter in luoghi di guerra. Meritava davvero di restare di più, visto che nell'insieme l'idea iniziale di Andreja Restek, ha trovato sostegno e collaborazioni davvero capaci di condurla in porto con un'ottima qualità espositiva.


Forse, data la tematica, si poteva limare il prezzo del biglietto per aumentare l'afflusso anche di persone e famiglie che non facilmente sono in grado di sborsare i dieci euro richiesti, ma ormai vedo che entrare ad una mostra o in un museo, se non ci si abbona in qualche modo, è sempre più un'attività onerosa. Il che forse farà più felici i venditori di offerte televisive on demand comodamente consumabili stravaccati nella "periferia mentale" di casa propria.


In ogni caso, qui si tratta di 14 donne che di professione fotografano, per conto dei mezzi di informazione internazionali, in luoghi dove sono in corso eventi bellici. Nella scelta curatoriale, l'attenzione è portata in prevalenza sulla condizione femminile che lì si incontra. Siccome da troppo tempo i drammi sono quasi tutti concentrati in zone islamiche del pianeta, ecco che la questione diventa incandescente perché coinvolge piani diversi e complessi che riguardano nell'intimo qualsiasi umano, a cominciare da quelli occidentali e di cultura cristiana.


In questo senso, al di là degli intenti della mostra, lodevoli e comunque da apprezzare fortemente, trovo che sia un punto di partenza interessante per una riflessione sull'iconografia occidentale della figura femminile.


Lo è in particolare in questo caso perché a produrla sono donne preparate e competenti e i loro soggetti sono altre donne. Non basta questo, per ogni fotografa c'è una breve scheda biografica nella quale non manca il solito santino (avatar, meme, o come volete chiamarlo oggi). La cosa è interessante perché si tratta di un'iconografia professionale scelta, si presume, dalle fotografe stesse per dare un'immagine coerente con quella che sentono come più rappresentativa. Cioè, diversamente dalle donne che capita loro di fotografare e che si ritrovano un'iconografia "applicata da terzi", sono esse le dirette responsabili di ciò che vediamo.


Ecco quindi che, con il semplice accostamento di questi santini con dei dettagli di volti che ho preso mentre ero lì, emerge tutta la complessità autoreferenziale del nostro modo, maschile e femminile, di pensare, guardare e produrre icone.

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