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Visualizzazione dei post da giugno, 2015

In compagnia di Godot.

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Dal 1839 uno spettro si aggira per l'Europa e non solo. No, non è il comunismo, ma oggi preoccupa molto di più, perché quello è storicamente defunto, mentre la fotografia, ribelle ad ogni religione visiva, incontrollabile dalle gerarchie, conosce una crescita sempre più esponenziale nella sua pratica e diffusione. Nulla sembra poter fermare il fotografico. Travolge professioni, tradizioni, classi, ogni possibile argine culturale, politico, economico. Non resta che un'ultimo baluardo, forse insormontabile: la legalità. Nasce nei consessi più preoccupati di difendere la loro supremazia sociale, non importa di quale natura essa sia, la necessità di nascondersi dietro delle leggi che imbriglino, e finalmente dominino, questo cavallo selvaggio. Come ai tempi di Al Capone negli States, oggi in Europa si briga per far approvare leggi sul diritto all'immagine che impediscano fino allo strangolamento l'uso libero di una fotocamera e dei suoi derivati. La scusa è quella e

Black sound, oh yeah...

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Poi c'è il maledettismo automatico. Inciampa, ubriacati, vai alla deriva, getta il fegato oltre l'ostacolo, non pensare, prendi, prendi foto come fosse la prima e l'ultima volta, lascia che sia il flusso vitale a regalarti qualcosa di visibile, che ti illuda di dare forma all'informe, luce al nero, vita al morto, sporca, strappa, deforma, filtra, black, black, black sound, oh yeah... "Le problème, c'est pas la chute, c'est l'atterrissage." (Mathieu Kassovitz, La Haine)

Vita che si dimentica di se stessa.

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Le immagini vivono nei corpi umani. Senza di esse questi corpi non potrebbero vivere ed interagire tra di loro. Non serve quindi nulla se non l'esistere per produrre e conservare innumerevoli immagini. Niente hard disk, niente archivi cartacei. La stessa memoria non è che una sintesi visiva, prima che linguistica, di ciò che ci attraversa in continuazione. Non di ciò che ci accade. L'immagine si colloca in un punto di passaggio tra gli eventi e le loro conseguenze. Perdere la memoria non vuol quindi dire perdere la vita, ma semplicemente rinnovare le immagini senza conservarle. Tutto appare nuovo, qui, per la prima volta, e poi ancora un attimo dopo. Una vita immemore è possibile perché le immagini continuano a prodursi, ma la loro impermanenza rende impenetrabile, inconoscibile, effimera la vita. In fondo, il flusso visivo della rete è vita che si dimentica di se stessa.

Un ordine possibile, ipotetico.

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L'osservazione è un'attività complessa che inizia molto prima dell'esperienza diretta sul campo. L'osservatore deve predisporre l'area d'interesse e scegliere gli strumenti idonei. Deve anche predisporre i parametri di riferimento, cioè, nel caso del fotografico, i valori iconografici dell'immagine restituita. In questo senso, l'osservazione è un intervento diretto di trasformazione visiva perché riduce l'esperienza ad un ordine possibile, ipotetico.

Le tracce visive del suo agire.

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Nell'uso di una macchina per prendere immagini risiedono molti aspetti specifici. Non tutto però è contenibile all'interno del pur ampio campo del fotografico. Prima di esso viene l'immagine tout court , quella che si forma, e si  alimenta, nell'essere umano rendendolo capace di vita e relazione con i propri simili. Da qui si comincia per poter riflettere sull'esperienza dell'osservazione in un luogo. L'osservatore stesso è parte dell'osservazione e l'iconografia che produce contiene elementi soggettivi che intersecano e guidano la sua esperienza. Ciascuno a suo modo, ma non nella totale libertà espressiva, bensì lungo binari che oltrepassano l'individuo e lo connettono a quanti incontreranno le tracce visive del suo agire.

Sarebbe pleonastica.

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C'è una componente ludica nel prendere fotografie, forse più minacciata in ambito professionale dalla routine e dal rapporto con il cliente, ma comunque sempre presente. Molte sono le sfaccettature del gioco. Forse nell'approccio maschile prevale il rapporto psicofisico con gli oggetti tecnici, in quello femminile la relazione del fotografico con il proprio sentire. Il gioco funziona se appaga. Quindi se l'appagamento è nel manipolare congegni o prendere fotografie per emozionarsi, direi che tutto va bene madama la marchesa. Poi c'è il momento successivo, quello del mostrare le fotografie. Questa è una soglia superata con troppa disinvoltura narcisistica, oggi ancor di più grazie alla rete. Come il mostrare figli, automobili, vestiti, ecc. Il mondo è un luogo meraviglioso perché chiunque si incontri non può non essere interessato a me e a ciò che penso, sento, faccio e dico. Invece no, non è così. Solo se in tutto questo c'è qualcosa che fa parte anche di qualcun

Eccomi qui.

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Ogni immagine fisica ed esperibile dagli umani ha origine in loro stessi. Anzì, proprio voler farla uscire dalla sua sede naturale, il corpo umano, è l'intenzione primaria all'origine ogni dipinto, disegno, scultura, fotografia, ma anche pagina scritta e stampata, suono emesso da uno strumento, movimento del corpo danzante, ecc. ecc. Oltre a questa considerazione aurorale, bisogna però far passare la giornata ed arrivare fino a sera. Pur indispensabile, la consapevolezza che la sede delle immagini è in noi non aiuta in nulla a renderle fisicamente esperibili ad altri. Serve una capacità, molti dicono innata, di farlo; di dare cioè forma e sostanza, vita in pratica, alle immagini. Per fare questo ci vuole esperienza, ricerca, fatica, rìpagate solo da una riuscita, almeno parziale. Ci sono problemi tecnici da conoscere e risolvere, questioni linguistiche da superare, faccende concettuali da sistemare. Per questo motivo preferisco, a costo di apparire arido ad alcuni, fa

Brutti, sporchi e cattivi.

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Mi viene proprio in mente il titolo di quel film di Ettore Scola del 1976 . Brutti, sporchi e cattivi erano e brutti, meno sporchi, ma più scemi son diventati. Un progresso sociale in fondo. La presentazione del libro fotografico Hotel immagine di Simone Donati organizzata ieri a Torino da Phom insieme alla Libreria Oolp , è l'occasione per sentire dalla viva voce del fotografo il racconto della sua esperienza immersiva, durata alcuni anni, negli abissi delle manifestazioni pubbliche dell'idolatria italica di massa. Dalla politica alla religione, dallo sport alla musica, ogni immagine introduce nuovi aspetti di un delirio collettivo. La serata era supportata da uno slide show, dal quale ho estratto alcuni dettagli qui pubblicati. Il succedersi delle immagini proiettate contrappuntava efficacemente il commento equilibrato, e persino rilassato, del fotografo, mentre ogni figura aumentava l'effetto deprimente. Almeno nel mio sentire. Il valore di questo lib

E son salito all'alpe.

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 Una mostra costruita come un viaggio nello spazio e nel tempo: " Pastori dell'alpe.100 storie, 100 volti per nutrire il Pianeta ". Questa ho finalmente attraversato a Villa Burba di Rho, portandovi qualche mia parola di sintesi, quasi in chiusura. Il viaggio parte dalle periferie milanesi di Carlo Corradi , perse nella nebbia digitale provocata dal sovraccaricare di sottoesposizione il sensore fin quasi alla sua resa totale. Con questa raffinata distorsione tecnica Corradi raggiunge nuove possibilità di ri-presentare un quotidiano da pendolare e costruisce tracce percorribili non più verso la destinazione obbligata, ma direttamente all'origine stessa dell'immagine automatica. Abbandonata la pianura urbanizzata, si passa dentro l'iconografia del paesaggio Trentino, così come viene voluta e diffusa dal suo interno, tramite i canali istituzionali. Qui dominano i colori accesi, le verticalità architettoniche delle Dolomiti, l'idea di un luog

Noblesse oblige.

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Se c'è un'esigenza profondamente umana è quella di esibire un'identità. Non importa quale purché sia la migliore possibile, quella più raggiungibile e mantenibile nel tempo senza che si possa facilmente svelarne la finzione. Perché ogni identità, per sua natura, è una finzione. Nel gioco di ruolo sociale dei rapporti umani, l'identità è una precondizione irrinunciabile. Così, vestirsi in un certo modo, atteggiarsi in un tal altro, adornare con certi oggetti il corpo, muoversi in una particolare maniera, sono tutte espressioni, persino involontarie, di identità. Danno l'innesco alla relazione con il prossimo e nutrono il pregiudizio, cioè quella opinione che sta all'inizio di un percorso di conoscenza o del suo rifiuto. Sarà forse per questi motivi più universali che anche nel piccolo mondo fotografico assume un'importanza identitaria rilevante la strumentazione adoperata. Basta frequentare circoli, social network, gruppi, per rendersi conto che sul pia

Ciò che si pensa di sapere.

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©2015 Fulvio Bortolozzo. Certamente le immagini che vivono in ogni umano tendono a fuoriuscirne in mille modi. La vita umana stessa sarebbe impossibile altrimenti. Anche in una fotografia questo può accadere. Più spesso, almeno qui in Italia, capita per tramite delle parole, sovente unite ai gesti e al comportamento se sono pronunciate a voce invece di  essere scritte. Un diluvio universale di parole che sommerge ogni cosa. Tutto è raccontabile, spiegabile, comunicabile. In ogni figura si nasconde un'emozione, un messaggio, un significato che può venir detto e reso evidente. Un'ansia montante di colmare ogni vuoto possibile perché il vuoto fa orrore, sembra non vita. Eppure, remando controcorrente, forse la migliore opportunità offerta dall'immagine automatica che chiamiamo fotografia è proprio quella di aprire un varco verso l'ignoto, l'indicibile, l'inumano. Una stasi, una soluzione di continuità nel flusso esistenziale che consente di trovare una spon

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