Il fotogiornalismo alla fine del mito.


 Ho visto al cinema "I sogni segreti di Walter Mitty". Una sceneggiatura tratta da un romanzo del 1939, già portata al cinema nel 1947 ed ora riadattata all'evento della definitiva chiusura dell'edizione cartacea della rivista LIFE e della sua trasformazione in testata web, fatto storico avvenuto nel 2007. Dico subito che mi sono molto divertito e, lo ammetto, alla fine perfino un po' commosso. Lo so, lo so, non era forse il caso di arrivare a commuoversi, però per non divertirsi, almeno in certi passaggi, bisognava davvero essere fatti di pietra. Il film non è sincero, vende mitologia sottobanco di seconda mano sul fotogiornalismo, ma quel Ben Stiller, regista e protagonista, ci ha messo del suo con onestà e pure con della partecipazione personale secondo me. Quel tanto che è comunque bastato a trasformare un pasticcio altrimenti indigeribile in qualcosa di, oserei dire, persino delicato a tratti.

La storia di questa produzione cinematografica è tortuosissima. Per gli appassionati dei perversi meccanismi hollywoodiani, un riassunto efficace lo si trova su Wikipedia. Nonostante tutto i circa 90 milioni di dollari spesi, e difficilmente recuperabili al botteghino, non sono solo andati in effetti speciali e mirabolanti riprese aeree di paesaggi resi fantastici dalla eccellente direzione della fotografia di Stuart Dryburgh. Qualcosa è rimasto ben speso anche nella efficace rappresentazione del meccanismo mitologico americano grazie proprio al fatto di aver scelto come terreno d'azione il fotogiornalismo in una delle sue massime espressioni.

Un'ideologia della vita intesa come avventura individuale densa di pericoli, ma proprio per questo oltremodo degna di essere vissuta gettando sempre il cuore oltre l'ostacolo. L'eroe omerico, il fotoreporter inafferrabile e giramondo, qui rappresentato da uno Sean Penn un po' icona di se stesso e visibile solo per pochi momenti alla fine del film, esiste però soprattutto per alimentare i sogni di gloria delle moltitudini costrette a vite grigie e ripetitive. Assistendo alle imprese dell'eroe, avverrebbe il riscatto, così come volare nella tempesta o scappare da un'eruzione vulcanica è comunque un po' appagante anche al cinema e consente di uscirne sani e salvi a fine proiezione. C'è una similitudine, e simpatia evidente, dei fabbricanti di sogni di Hollywood per i fotoreporter mitizzati: entrambi non informano affatto, ma invece costruiscono nuove religiosità laiche, altrettanto oppiacee, se non di più, di quelle storiche.

Al fondo di tutto questo schema ben collaudato, c'è però la virgola imprevista dell'omaggio alla professionalità quotidiana, una cosa che forse in Italia non risulta molto comprensibile per via della difficoltà di fare discorsi sulla meritocrazia. Alla fine l'eroe si inchina all'archivista dei negativi, quello che in 16 anni di lavoro a LIFE non ha mai perso o rovinato un solo negativo, e gli dedica lo scatto della quintessenza, il numero 25. Lui dovrà però ritrovarlo dando fondo a tutta la sua professionalità e alla sua comprensione che un fotogramma non contiene la verità, ma solo delle tracce molto ambigue da cui tentare di partire per cercare delle risposte. Qui il film si riscatta e diventa persino necessario. Qui inoltre generazioni di persone, che sono ormai passate alla storia, trovano l'onore delle armi. Nessun eroe mitologico del fotogiornalismo internazionale sarebbe mai esistito senza l'appassionata e quotidiana devozione del loro, anche noioso, lavoro editoriale di raccolta, difesa e valorizzazione.

Oggi tutto è diverso. Un Walter Mitty qualsiasi non sogna più per mezzo di nessuno. Impugna il suo smartphone ed entra nel mito direttamente in tempo reale, sulla rete, nei social network. Cosa questo significhi è troppo presto per dirlo, ma sta avvenendo, ogni giorno di più, comunque la si pensi al riguardo.



Post Scriptum
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