Fotografare per dimenticare

Sbirciando sul blog di Michele Smargiassi, ho letto un articolo intitolato L'inciviltà delle immagini, al quale rimando per comprendere meglio le ragioni di ciò che sto per scrivere. In particolare, una citazione fatta da un commentatore di quell'articolo, Giuseppe De Marte, mi ha indotto a modificare la mia posizione sul fenomeno Instagram, che descrissi qualche articolo fa, come peste oculare.

Ecco la citazione:

La qualità è il nemico di ogni genere di irreggimentazione.
Sul piano sociale ciò significa la rinuncia alla caccia di posizioni di potere, la rottura con ogni culto del successo, lo sguardo libero verso l’alto e verso il basso, il piacere per la vita segreta ed il coraggio per quella pubblica.

Sul piano culturale, l’esperienza qualitativa significa il ritorno dalla radio e dal giornale al libro, dalla precipitazione all’ozio ed al silenzio, dalla dispersione alla concentrazione, dalla sensazione alla riflessione, dallo snobismo alla modestia, dallo squilibrio alla misura.
Le quantità si disputano lo spazio, le qualità si integrano a vicenda.

 Dietrich Bonhoeffer

Vorrei subito ringraziare Giuseppe per la frase di Bonhoeffer, che non conoscevo, ma che sento appartenermi pienamente.

Esistono almeno due modi fondamentali di lavorare sul fotografico: farne oggetto di studio o fabbricarci icone. Nel primo caso non si fa nulla di diverso da quanto fatto nella storia dell'arte visiva. Ci si interroga sullo statuto dell'immagine, si ipotizzano e praticano i suoi possibili valori estetici, sociologici, ecc. ecc. insomma si fa ricerca attorno al mistero del rapporto tra l'umanità e le immagini che essa produce. Nel secondo caso invece si assume tutto il meccanismo come un dato di fatto tecnologico e lo si applica alla produzione di informazioni visive per se stessi, familiari, amici, conoscenti, via via fino agli sconosciuti incontrabili nei flussi della rete. L'uso del fotografico qui è perfettamente "schienato" su quello del verbale di tutti giorni. Oggi le nuove tecnologie digitali e telematiche rendono talmente semplice, rapido ed economico condividere icone invece, o insieme, alle parole, che siamo alla terza alfabetizzazione: linguaggio verbale, scritto, iconico. Nulla di più. Il terrore da implosione entropica che mi pare affligga in modo crescente la comunità di intellettuali, curatori, artisti, critici, studiosi, tra cui umilmente mi metto, è a mio avviso del tutto infondato. Si potrà continuare ad occuparsi della ricerca e miliardi di altri umani useranno invece le icone per relazionarsi, come prima già usavano le parole. Difatti, mica ci confezioniamo un repertorio delle parole che diciamo ogni momento per recuperarle poi a futura memoria o per scriverci dei saggi?  Oggi le immagini tecno-ottiche si fanno e si dimenticano. Solo per un residuo "rispetto", inculcato temo dalla scolarizzazione che sacralizza le immagini dell'arte, invece di farle e cancellarle subito dopo, si mettono in cantina. Proprio come per le robe che si finisce per buttare definitivamente via solo molti anni dopo. Affettività? Forse. In ogni caso, visto che il backup è una procedura di "fotografia digitale sicura", molto poco praticata, ci pensera il prossimo crash dell'hard disk a compiere l'eliminazione finale del flusso ormai consumato. Stiamo passando dal fotografare per ricordare al fotografare per dimenticare.


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