L'Aranda alla Koch



Come ho già avuto modo di scrivere sul blog Fotocrazia dell'amico Michele Smargiassi, penso che l'intervento di Roberto Koch, fondatore e direttore dell'Agenzia Contrasto, alla trasmissione "Quello che (non) ho" sia stata un'occasione perduta. Davanti alla parola FOTOGRAFIA, che campeggiava sulla scenografia dello studio, e in riferimento alla fotografia di Samuel Aranda, ultima vincitrice del World Press Photo, Koch legge un discorso in difesa della "buona fotografia" contro il diluvio di immagini nel quale siamo immersi. Peccato che proprio la fotografia di Aranda sia un'esempio deprimente di come si possa trasformare in "immagine diluviale", icona mediatica, una fotografia estratta dal, per altro encomiabile, lavoro di un fotoreporter.

Rispondendo ad una sollecitazione di Smargiassi, ho rivisto e corretto il discorso di Koch, non tanto per farlo aderire alle mie idee sulla questione, certamente più radicali, quanto per render(me)lo più accettabile. Ecco il testo:

“La madre si chiama Fatima Al-Qaws, il figlio Zayed. Ha 18 anni. Il luogo è la Moschea di Sana’a, che i dimostranti usavano come ospedale improvvisato. Fatima era calmissima mentre lo stringeva e si prendeva cura di lui. Poi i soccorsi sono arrivati e lo hanno portato in ospedale. Dopo due giorni di coma, Zayed si è ripreso e ha di nuovo partecipato agli scontri per le strade della città. È stato ferito per altre due volte. Il racconto di Zayed in rivolta, e di sua madre che lo accudisce ferito, non è però visibile nell’immagine di Samuel Aranda. Questo ci dimostra che una sola delle fotografie che attraversano la nostra vita non ci consente di conoscere il mondo e gli uomini che lo abitano. Oggi difatti siamo immersi in un diluvio di immagini: sulla rete, nello scambio con gli amici, nei social network, nella pubblicità e nell’editoria più commerciale. È quindi l’immagine più che la fotografia a farla da padrone e questo mette a rischio la fotografia per come l’abbiamo sempre conosciuta. Come frutto del lavoro di grandi autori che ci hanno permesso di conoscere e conservare una affidabile descrizione del nostro tempo. Ma dei fotografi e delle buone fotografie abbiamo ancora un bisogno estremo. Una buona fotografia non è quella che simboleggia qualcosa, ma quella che descrive un fatto in modo così efficace da spingerci a farci delle domande e a riflettere. Una buona fotografia trasforma un osservatore in una persona più consapevole. In questo senso, questa fotografia della Pietà contemporanea si aggiungerà forse ad altre icone indelebili che ci resteranno impresse nella memoria, ma lasciata sola a se stessa non potrà mai dirci nulla sulla lotta per la libertà che attraversa i Paesi arabi, né avvicinarci alla storia di persone apparentemente lontane. Per conoscere il loro destino, dobbiamo partire da qui e viaggiare attraverso altre fotografie e altre parole.”

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